Carol è la donna che dà il titolo al sesto film di Todd Haynes. Ma la vera protagonista è la giovane che di lei s’innamora: Therese. Therese non ha nemmeno vent’anni, è da poco fidanzata con un bravo ragazzo, e lavora in un negozio di giocattoli. Le bambole che la circondano dietro la cassa dove svolge le sue mansioni sono come la sua vita: una vita di porcellana, una vita da bambina, una vita ancora custodita. A scombussolarla, a riplasmarne le fondamenta tutto d’un tratto arriva Carol, una donna adulta, molto più grande di lei, sulle spalle una pelliccia avvolgente e regale, e ferite tanto inestinguibili quanto inevitabilmente estranee a Therese, così pura, “come un angelo venuto dallo spazio“.

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Da parte di entrambe si accende come un incantamento, un riconoscimento l’una nell’altra che se per Carol è un dono commosso (perché consapevole della sua “natura”, una colpa imperdonabile che alla fine la strapperà da sua figlia), per Therese è una burrasca sconosciuta, impetuosa e ipnotica, impossibile da fermare, ma anche un flusso di limpida magia, di passione cristallina. Ed è esattamente questo la meravigliosa opera di Haynes, che muove l’altra faccia di Lontano dal paradiso, dove Julianne Moore si innamorava di un uomo dalla inaudita pelle nera e scopriva l’omosessualità del marito.

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Qui è quella femminile a subire i lacci pregiudiziali dell’epoca, ma la denuncia rimane sempre sottotraccia (la bellissima scena del tribunale sta lì a confermarlo, con l’amara e sottaciuta epifania di Carol), perché a contare e a centralizzare è il percorso di Therese, che s’infrange sulle prime “cose di grandi” e tocca per la prima volta il dolore, l’ingiustizia, il tradimento, la corruzione degli altri, camminando a piccoli passi fuori dalla sua casa di bambola e costruendone una propria, immersa nella pelle dura del reale, e delle sue illusioni incoscienti, così distanti dalla loro immagine riflessa (su una foto, su un vetro, su un dipinto).

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Guardare Carol è come assistere a un mèlo di Douglas Sirk sposato alle idee visive di Edward Hopper, riempito dalla modernità di due attrici magnetiche come l’inarrivabile Blanchett e la leggiadra Mara, che a tratti rievocano rispettivamente Marlene Dietrich e Audrey Hepburn, riprese da Haynes con una grazia e una classe sublimi – quelle camminate, quegli sguardi, quei controcampi che sembrano fiorire dalle inquadrature di La donna che visse due volte; quelle mani che tremano sulla cornetta, quei capelli che danzano nel vento, espressione dorata di un cinema che sembra esistere da sé, di una bellezza accecante. Tutto, dalla regia alla fotografia, dalle musiche struggenti al montaggio, è impeccabile e allo stesso tempo lancinante. “Dimmi almeno che sai quello che stai facendo” “Non lo so. Non l’ho mai saputo“.



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